
Breve tour archeologico in Italia
(a cura di Antonio Mastrogiacomo)
In questi ultimi tempi il turismo internazionale è stato oltremodo messo in discussione quasi a vantaggio della riscoperta dell’immenso patrimonio artistico italiano.
Non sono mancati infatti servizi al tg, prime pagine sui quotidiani nazionali e nuove proposte di accoglienza turistica a rafforzare questa strategia economica in risposta al considerevole cambiamento in atto dei flussi turistici.
Senza entrare nelle pieghe delle politiche varate a garanzia di questo settore dalla robusta fragilità, abbiamo deciso di costruire una rubrica in forma di inchiesta giornalistica in relazione ad una possibile linea di fuga che si muove proprio dagli studi del greco e del latino, quella dedicata alla memoria archeologica della loro presenza nella nostra identità culturale.
Al fine di alleggerire il già traumatico rientro dalle vacanze a partire dal clima di instabilità didattica di questo inizio anno scolastico, abbiamo pensato così di rivolgere la nostra attenzione al patrimonio immateriale in aperta continuità alla concretezza del metodo di studio proposto nelle altre sezioni del nostro portale.
Un piccolo tour articolato in tappe ancora da scandire, da impreziosire inserendo racconti dei nostri utenti che vogliano porsi sulla scia di questa iniziativa.
La premessa metodologica al discorso intrapreso riposa nel testo di seguito, teso a raccordare tra loro beni culturali e comunicazione del patrimonio.
Visita guidata alla…visita guidata: il caso dei parchi archeologici
Il tema della comunicazione del patrimonio artistico conosce quasi quotidianamente picchi di attenzione mediatica, suggerita negli ultimi mesi dall’accordo tra personaggi del mondo dello spettacolo degradati al ruolo di influencer e direzioni più o meno illuminate che si affidano al prestigio di questi interpreti – ne riparleremo più specificatamente nella sezione dedicata al MarTa di Taranto.
In questo spazio che sfruttiamo a mo’ di premessa vogliamo innanzitutto rivolgere un appello ai visitatori unitamente alle direzioni dei poli artistico-culturali della nostra penisola: impariamo a frequentare questi posti per quello che significano, non solo per quello che mostrano.
In altre parole, la visita di un sito archeologico non si limita al book fotografico di turno ma alla sensibilizzazione di questo percorso in vista della nostra identità culturale. Da operatore del settore, ho maturato nel tempo una certa sensibilità nei confronti delle famose audioguide, misura sempre più incoraggiata quale panacea della comunicazione del patrimonio eppure limitante nelle sue stesse condizioni di possibilità.
In questo testo proveremo a fare leva sulla voce delle guide più che su quella registrata delle audioguide per mostrare come la memoria di questa esperienza possa riverberarsi grazie all’umanità della voce in presenza – e non digitalizzata.
Preme solo indicare come vada contestualmente indicata una differenza tra percorsi museali e nei parchi archeologici: il museo è una istituzione dalla primaria funzionalità didattica, nata in tempi già sospetti per educare il popolo alla memoria storica ed oggi sempre più riservato all’incremento dei servizi al pubblico da misurare in guardaroba, bookshop e caffetteria.
Ebbene, il suo statuto labirintico è governato da una pannellistica che sostiene questo spirito, cui nel tempo è andata ampliandosi l’offerta multimediale, tra audioguide all’ultima moda e postazioni video ad orientare il seguito interessato dei visitatori. I parchi archeologici, proprio in virtù della loro grandezza che comporta, se vogliamo, una gestione ancora più complicata, non hanno avuto modo di attivarsi in senso multimediale pagando lo scotto della difficoltà di una memoria elettrica cui fare affidamento per proseguire la propria azione essenzialmente sui social.
L’audioguida può essere uno strumento utile, soprattutto per monitorare i dati relativi all’affluenza e agli interessi del pubblico: più o meno elaborate, sembra proprio che la riduzione dell’esperienza alle indicazioni di uno schermo rinnovi i sentieri di visitatori non troppo paghi della presenza di uno strumento similare allo smartphone. Eppure, il dato sul quale intendiamo soffermarci è in relazione al ricordo stesso di questa esperienza, degradabile nel tempo alla sola memoria del dispositivo impiegato, meno alle informazioni raccolte grazie al suo impiego. Come agli svincoli autostradali le casse automatiche risolvono il problema del lavoro dei casellanti, così le audioguide scoraggiano dal riferirsi allo studioso che ha scelto di destinare quello stesso patrimonio alla comunicazione al pubblico.
Se nel caso dei musei il percorso controllato può dirsi a misura di visitatore, nel caso dei parchi urbani (pensate a Matera) o dei parchi archeologici (pensate a Pompei), la presenza di una guida assicura quel contatto che sempre e solo una voce umana in presenza può coltivare, specie se raccordata alla personale attenzione del visitatore.
Il settore di cui stiamo definendo una strategia di visita è dominato da un buon livello di improvvisazione a tutti gli strati, dai servizi di accoglienza turistici a quelli di esperienza diretta sul territorio. Se alla tecnologia è quasi sempre demandato il compito di risolvere le relazioni tra gli uomini, il senso di una visita può risolversi proprio in questo spiraglio di umanità, affidando i propri soldini ad una persona che sappia prendersene cura (non dimentichiamo che le stesse audioguide, talvolta, possono essere a pagamento, non incluse nel titolo di ingresso).
Provate di persona, come è successo più volte a chi scrive: visitate lo stesso luogo da un lato come turista fai da te, barcamenandovi tra mappe, informazioni e domande puntualmente lasciate inevase, dall’altro affidatevi a distanza nel tempo ad un esperto sul campo, lasciandovi trasportare sulle ali del tempo trascorsi in un viaggio a ritroso da poter interrogare senza scrupoli.
Ecco, ci sembra di aver sintetizzato nel precedente paragrafo una possibile differenza attraverso cui indicare una diversità di carattere tra le diverse esperienze considerate: nel caso dei parchi archeologici poi il ricorso ad un percorso guidato può dirsi decisivo, anche per non stancarsi troppo e inutilmente.
Affidarsi alla voce di una persona di carattere, in grado di confrontarsi col suo uditorio, può giustificare infatti i nostri sforzi, anche economici, per non rendere questa esperienza esclusivamente degna di una memoria fotografica.
A casa di Parmenide
Il nostro percorso prende le mosse da un parco archeologico noto ai più col termine di Velia, al secolo Ascea per chi si muove con il treno da Napoli verso sud. Proprio su questo percorso faremo nuovamente rotta, nel viaggio di rientro verso Napoli, per una tappa presso il parco archeologico di Paestum, al netto di un collegamento tra i due siti solo di recente ufficializzato anche dalla Sopraintendenza per i Beni Culturali della Campania.
Insomma, proviamo anche a suggerire percorsi sostenibili, da raggiungere non necessariamente in macchina, augurando che qualcuno, magari incuriosito da queste piccole briciole di memoria di seguito, possa magari mettersi in cammino verso luoghi senza tempo quali Velia e Paestum ancora oggi appaiono.
La scorta delle impressioni riportate è suggerita dall’aver avuto la possibilità di visitare il sito in questione in compagnia di una guida predisposta dal parco archeologico in risposta alle misure di contenimento adottate per la prevenzione sanitaria: una volta compattato il gruppo di visitatori, siamo stati efficacemente guidati dalla voce di una operatrice culturale dell’istituzione che ha così permesso a noi tutti di tornare a casa con una storia da raccontare che non si riducesse alla visita. Solo così i nostri dubbi sono confermati dalle sue indicazioni: il parco che vediamo è solo parte di quanto ancora c’è da scoprire, in attesa che gli investimenti pubblici possano finalmente continuare la scommessa archeologica portata in avanti dal ‘700 in poi.
Ebbene, ci troviamo ancora avvolti da quelle nubi che si diradano ancora sulla nostra contemporaneità, il cui accumularsi non sembra essersi liberato dal tutto dal peso della storia. La divisione tra parte bassa e parte alta del sito, oltre a stancare gli impavidi visitatori estivi, offre uno spaccato urbanistico decisivo per indicare la divisione funzionale degli stessi spazi facendo dell’altura il cuore della vita culturale di un centro particolarmente sui generis, proprio in virtù della presenza di una comunità molto attiva nei suoi scambi commerciali con la patria greca, anche a livello culturale.
La gestazione di un pensiero filosofico sulle sponde del Tirreno continua la gittata di quella tradizione culturale ben avviata in continente, lasciando spazio a quei paradossi che solo dalla scuola eleatica avrebbero assestato un duro colpa alla dottrina filosofica fino a quel momento di stanza; in altre parole, fa specie pensare come il pensiero abbia percorso il tempo con maggiore efficacia che quei resti concreti e documentabili che sono proprio sotto i nostri occhi, a partire da quella H (heta) che sigla il materiale costruttivo in uso.
La voce della nostra guida, gratuitamente messa a disposizione dal parco e disponibile a confrontarsi con un pubblico estremamente eterogeneo, ci ha così spiegato come si articolava la vita della comunità, per quale motivo la tradizione medica e filosofica fosse così decisiva nella cultura di quel tempo, per quale motivo la città si fosse conservata in questo modo e come il parco si mantiene attivo nel confronto col suo pubblico grazie a laboratori didattici per le scuole e incontri culturali meno legati alla memoria, più alla bellezza del parco archeologico stesso (ad esempio, quella stessa sera Nicola Piovani avrebbe portato il suo spettacolo, “La musica è pericolosa”, proprio all’ingresso della visita guidata).
Purtroppo non abbiamo avuto modo di passare nei pressi della Porta Rosa che, scoperta nel 1964 dall’archeologo Mario Napoli, trova spazio anche nel testo filosofico parmenideo, dal non troppo originale titolo Peri Physeos.
Questa visita è stata davvero importante, perché la prima portata avanti, involontariamente, grazie all’ausilio di una guida in grado di dare rilievo e sostegno alla nostra scelta di visitare questo sito, altrimenti lasciato all’incuria della sola passeggiata tra le rovine.
All’ombra dei templi di Paestum
Stavolta la memoria deve correre più lontana nel tempo, fare affidamento ad una visita consumata in occasione di prime domeniche ad ingresso gratuito, misura ministeriale disposta quale garanzia alla valorizzazione del patrimonio artistico ma poco incoraggiante se l’unico risultato sbandierato ai quattro venti riposa nel dato numerico degli ingressi, meno nell’accoglienza dei visitatori: come le greggi occupavano quegli stessi luoghi ancora non rinchiusi per farne area archeologica, così le orde di turisti possono assalire quegli spazi facendo spazio più ai selfie che ad altro. Dobbiamo infatti misurare storicamente la legislazione adottata a partire anche dal confronto con la ricezione del pubblico, non solo quantificare i biglietti staccati per tradurre la quantità in qualità dell’offerta. Meglio arrivare direttamente al museo e al parco e lasciare sullo sfondo dispute in tal senso.
Già il percorso che mette in comunicazione la stazione di Paestum con il sito permette di varcare la soglia tra antico e moderno, lasciando alle spalle la strada asfaltata per mettere piede sul terreno polveroso del sito archeologico dopo aver visitato il museo, già biglietteria di entrambe le postazioni. Il museo è un vero e proprio museo archeologico, pieno dei materiali rinvenuti, studiati e catalogati insieme prima di essere proposti al grande pubblico nelle diverse sale museali; al tempo di questa visita domenicale, un curioso laboratorio sulla musica antica avvicina più o meno piccoli all’ascolto dei musici di turno, pronti a dare qualche nota di sala in diretta al pubblico intervenuto al concerto mattutino. La frammentaria storia raccolta è impreziosita dal percorso museale suggerito, efficace sintesi da proporre in continuità con la visita a venire, dedicata all’aperto degli spazi la cui immagine è tutta racchiusa in quei poderosi templi lì fuori.
Pezzo forte della collezione resta la tomba del tuffatore, metafora simbolica dei regni da percorrere in vita, con il mare a ospitare la scommessa dell’eternità. Suggestivo lo spazio dedicato all’opera, con una rifacimento della struttura a mezzo ampie vetrate che permette al visitatore una passerella di valore inestimabile. Non possiamo chiaramente definire con sommo dettaglio tutto il materiale storico documentario disponibile, eppure possiamo di certo incoraggiare il lettore ad una visitina del museo, sostenuto da una politica di comunicazione evidente anche dalla pannellistica disposta durante tutto il tragitto.
Messo alle spalle il museo archeologico e la sua forma quasi stereotipata che fa correre la memoria lontana, verso quello magari più suggestivo, di sicuro più grande, di Atene, è arrivato il momento di varcare il cancello ferrato che conduce all’area archeologica vera e propria, di rimpetto allo stesso museo. Qui, pur non raccogliendo informazione alcuna per via del così poco a disposizione per farsi un’idea a riguardo, ci lasciamo contagiare dalla magnificenza dello spazio umanizzato ammirando la grandezza del passato a partire dalle sue forme regolari.
Ebbene sì, anche in questo caso gli scavi possono dirsi sommamente incompleti: anche in questo senso c’è da leggere una profonda critica alle misure economiche adottate a sostegno della valorizzazione del patrimonio laddove il solo dato ricavabile è alla voce “budget”, meno alla voce “lavoratori”: pensiamo con amarezza ai tanti studiosi formatisi nel seno di una coscienza archeologica eppure lontani dal loro legittimo impiego, magari inoccupati a dispetto delle voci dedicate al bilancio per la manutenzione dei beni tecnologici, quasi sempre inattivi al momento della visita. Tre magnifici templi dorici si stagliano all’orizzonte, dedicati con ogni probabilità a Poseidone, Hera e Cerere con i primi due quasi affiancati e il terzo posizionato all’estremità settentrionale del sito, con il centro occupato dal Foro romano a mostrare la stratificata storicità del parco. In questo caso saremmo davvero stati avvantaggiati dal percorso guidato, purtroppo non disponibile in quella circostanza proprio in virtù delle misure ministeriali predisposte per quella prima domenica del mese di cui tanto spesso abbiamo sentito parlare da meritare tappa nel nostro calendario.
Il consiglio può essere quello di affiancare lo studio del greco e latino con la coscienza archeologica del loro passato, l’unico a rinverdire le aspettative di studenti disperati alle sole prese del libro stampato, magari più vicini a respirare l’aura di quel tempo trascorso che non smette in nessun modo di farsi presente ai nostri occhi.
Non solo Pompei: alla scoperta di Ercolano
Siamo tornati a Napoli e, dopo un viaggio di andata e ritorno in regionale, riteniamo opportuno cambiare mezzo di trasporto per affidarci alla celebre circumvesuviana, un collegamento decisivo verso le arterie periferiche della città metropolitana di Napoli.
Piccolo consiglio per i viaggiatori: se potete, partite sempre da porta Nolana vale a dire il capolinea, magari riuscite pure a non fare il viaggio in piedi considerata l’affluenza a dir poco considerevole, specie per la tratta diretta a Sorrento. Proprio in questa direzione dovrete muovervi qualora vogliate andare a visitare il parco archeologico più famoso al mondo, basta riflettere sulle grandi traduzioni cinematografiche di inizio secolo scorso come The last days of Pompeii. Ebbene, ce ne occuperemo propriamente quando nella scheda dedicata ai fasti cinematografici dell’area.
Il nostro viaggio infatti si limita a qualche fermata prima, alla scoperta di Ercolano, cittadina densamente popolata alle pendici del Vesuvio, ugualmente vittima della famosa eruzione in cui Plinio il Vecchio perse la vita, anno 79 d.C.
Terminata la corsa, basta semplicemente assecondare lo sguardo, scendere il pendio che porta dritto dritto agli scavi, magicamente inseriti in un contesto pubblico immerso nel verde del parco archeologico, limitato da un ingresso che si offre quale soglia da varcare per entrare nel passato. Visitato qualche mese fa, poco prima della chiusura e relativa riapertura con più stringenti misure di sicurezza, il sito di Ercolano può vantare una buona strategia di comunicazione, come nelle sue pillole settimanali del mercoledì, quando il direttore svela ogni volta un nuovo pezzo della collezione.
Così, incoraggiati da questa attenzione rivolta al possibile pubblico in presenza, abbiamo deciso di fare una visita ad Ercolano. Ed è qui che abbiamo capito come la nostra stessa visita non potesse essere completa senza qualcuno disposto a guidarci. In effetti, abbiamo notato una certa differenza di carattere tra l’indoor e l’outdoor quanto a pratiche di comunicazione del patrimonio: se gli spazi chiusi sono decisamente ben arredati, con una illuminazione capace di mostrare al meglio gli oggetti conservati, e la struttura dedicata alla ricostruzione della barca trovata al porto poco distante a farsi carico di questo ingombrante relitto, gli spazi aperti sono quasi tutti visitabili come se stessimo passeggiando per le strade di Apice Vecchia, in provincia di Benevento: le macerie diventano memoria impreziosite stavolta da affreschi parietali che dimostrano come i gusti pittorici fossero già al tempo inquadrabili nelle prospettive domestiche, quasi a garantire quel privilegio sociale che ancora oggi sembra riferirsi implicitamente a facoltosi padroni di casa a scapito di residenti in dimore ben più umili.
Così, muoversi tra quelle case senza chiedere permesso diventa un esercizio non dissimile dal praticare passeggiate rurali e, soprattutto, la nostra attenzione è stata richiamata all’ordine da una guida che portava a spasso per il sito una scolaresca, ben capace di adattarsi al registro linguistico degli studenti e desiderosa di insegnare come poche volte capita a docenti impegnati nella stessa disciplina. Così, abbiamo teso l’orecchio qualche minuto, ebbene sì, abbiamo origliato convinti di non far furto a quella voce ma darle merito per l’impegno profuso. E scopriamo insomma come una giornata ad Ercolano possa essere propedeutica ad una più impegnativa visita a Pompei, non solo per la grandezza.
A dire il vero, lo smarrimento dovuto alla incapacità di muoversi con criterio tra quelle strade era dettato in prima istanza dall’incapacità di riconoscere le funzioni delle strutture ancora in mostra, mancava lo sforzo di restituire quei resti alla loro vita per scoprire piuttosto come le università statunitensi progettassero il futuro tecnologico del sito a scapito degli investimenti della ricerca italiana a riguardo: grazie a un pannello non poco distante da un’area ristoro concessa ai distributori automatici, capivamo bene come questi resti scaldano il cuore più degli stranieri che degli italiani, i primi pronti ad investire, i secondo pronti a fare solo le pulci al bilancio. Abbiamo così potuto riconoscere in questa dialettica una certa disposizione che ci sentiamo di condividere con i nostri lettori al fine di chiarire l’orizzonte economico rischiarato da queste risacche archeologiche.
Abbiamo detto di Ercolano proprio perché lì abbiamo scoperto l’indiscreto fascino del futuro dei beni culturali.
Cataldo is better than Chiara
La storia di Taranto è antica, molto più antica di quanto possa spacciare una narrazione mediatica che confina la cittadina pugliese alla sola archeologia industriale in riferimento all’EX Ilva. Una ex colonia spartana, a dire il vero, che ha dato del filo da torcere ai Romani e che, in virtù della sua posizione strategica tra mar piccolo e Mar grande ha costruito la sua millenaria identità, ancora oggi operativa grazie alla tutela e alla valorizzazione che in gran parte si deve alla presenza della Marina Militare in città.
Taranto Vecchia è un cunicolo di vicoli stretti con lo sguardo rivolto all’aperto, di stradine scoscese e ipogei quasi alcuni dei quali visitabili, a garantire quella stratificazione verso le viscere della città che da sola garantisce la misura della storicità di questo dispositivo urbano. Non possiamo dilungarci troppo nella premessa, il rischio di allontanarci dal nostro focus è molto alto, ci permettiamo magari di ritornare in futuro sull’argomento estendendo alla città tutta la misura di sito archeologico. Stavolta, proveremo ad entrare più nello specifico, raccontando di una visita al museo archeologico cittadino, il MarTa.
Ebbene, prima della nostra visita agostana a far tappa presso questa istituzione era stata una certa Chiara Ferragni che, magari sulla scorta delle polemiche in relazione alla sua visita agli Uffizi di Firenze, era stata invitata dalla direttrice Degl’Innocenti. Nulla di eclatante, meno scalpore che la tappa toscana prima di immergersi nel mare caraibico della costa tarantina, la sua visita dimostra ancora una volta come lo scotto da pagare per la cultura sia proprio nella sua possibilità di esistenza nell’orbita dello spettacolo. Fortunatamente, il lavoro della direttrice non si è limitato all’invito di questa così controversa figura della nostra già fragile contemporaneità: la stessa, in accordo alle norme diffuse sul territorio nazionale in riferimento alle visite museali, ha disposto che i visitatori avrebbero seguito un percorso proposto dagli stessi lavoratori del museo che, oltre alla funzione di controllo del patrimonio, assolveranno per un po’ anche alla funzione di guida, con guadagno immediato da parte dei visitatori che, gratuitamente, possono sapere qualcosa in più di quegli oggetti, soprattutto in relazione alla loro storia e significato.
Così, la nostra guida, il signor Cataldo, tarantino già per incoronazione onomastica, dopo averci raccolto all’ingresso ci ha portato su su per le scale, all’ultimo piano ed avviare così un percorso a tempo, in accordo alle nuove direttive ministeriali. Che dire, ci sarebbe davvero tanto a riguardo, a partire dalla memoria di quegli stessi oggetti pronta a rivivere per bocca del nostro Virgilio: dall’oreficeria ai diversi strumenti a corredo della vita quotidiana, il percorso è davvero fitto, anche di riferimenti storico-geografici che aiutano proprio nell’interpretazione di quello stesso patrimonio.
Un percorso, quello di un museo dalla evidente riorganizzazione strutturale ad opera della nuova direzione, che si snoda nei secoli per non dimenticare gli sforzi di quei direttori, di quegli operai, della stessa popolazione tarantina che ha permesso alla memoria di rinnovare la sua funzione. Così, onde evitare eccessi di zelo in fase di documentazione archeologica, la nostra attenzione si limita a un caso su tutti, la tomba dell’atleta, la cui centralità tra i reperti è caratterizzante della stessa storia del museo in questione. Ebbene, se proprio volessimo trovare una analogia tra la nostra cultura di massa e la cultura dello spettacolo del tempo, la funzione primaria assegnata alle competizioni sportive sembra offrirsi quale chiave di volta di questi stessi strutturali: un atleta da ricordare con somma magnificenza, questo ricaviamo dal corredo funerario disposto a partire dal pesantissimo sarcofago che ne accoglie i resti.
Le indagini sul suo corpo hanno permesso di ricavarne una morte per arsenico, dovuto con tutta probabilità all’alimentazione dello stesso campione che, per raggiungere i suoi risultati, basava tutto sulle proteine animali in gran parte ricavate da pesce che assunto in grandissima quantità non deve avergli fatto benissimo. Insomma, più si scopre l’antico più lo si riscopre nel moderno, senza dover in questo caso fare riferimento alle importanti connessioni ricavabili dalla lirica, tanto greca quanto romana.
La nostra visita a tempo scade dopo circa 100 minuti dal nostro ingresso, quasi una trentina di minuti a piano attraversato di mattina presto di una calda giornata di agosto prima di salutare una città che merita ben altra fama che quella consegnatale dalla politica.
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